Alcuni mesi fa, ferma a un semaforo, rimasi colpita da una bambina che, anzichè guardare il mondo in corsa fuori dal finestrino, fissava i cartoni animati sullo schermo LCD "incastrato" nel poggiatesta del sedile del padre. Per lei era normale, per me poco educativo.
Oggi, nonostante continui a pensare che sarebbe stato meglio se in quel momento i genitori le avessero insegnato a guardare il mondo, lasciando i cartoni all'interno delle mura domestiche, mi rendo conto che il tutto andava ben oltre.
Troppo piccola per poter far parte della "vera" generazione dei nati digitali cresciuti senza avi, quella bambina apparterrà sicuramente un domani a quella degli screenagers descritti dal professor Paolo Ferri alla conferenza tenutasi ieri all'Accademia dei Lincei a Roma.
Il convegno, che ha avuto come titolo guida "Nati digitali. Tendenze di una generazione senza avi", ha presentato luminari del calibro di Michael Wesh e Derrick de Kerchove che, insieme ad altri esperti di comunicazione e nuove tecnologie, hanno cercato di svelare la realtà dei quindicenni di oggi.
I nati digitali, teenager dei nostri giorni, vengono descritti da de Kerchove come "multitasking, transculturali, globali e aggreganti virtualmente". Il massmediologo canadese, sottolinea anche una evidente differenza neurologica tra chi utilizza Internet e chi no. Lo stesso Paolo Liguori, direttore del Tgcom e docente di editoria multimediale, parla di una generazione rivolta più alla tecnologia che ai contenuti. Ci troviamo di fronte a nuove forme di comunicazione e interazione, dove spetta ai media il compito di veicolare le relazioni umane.
Noi "immigrati digitali" non possiamo non riconoscere il nostro essere indietro rispetto ai "nativi": se il ventenne è cresciuto parallelamente al computer, evolvendosi in contemporanea e pronto a imparare quanto di nuovo gli venisse offerto, il quindicenne è stato invece educato dallo stesso pc, parente acquisito di una famiglia senza avi.
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